1600
Mentre San Michele si difendeva con tanta scrupolosità contro il pericolo della pestilenza, erano ricominciati i litigi con i marchesi, ancora per la questione delle decime.
Anche se per tanti anni tale questione non era più stata sollevata, la popolazione continuava a non pagare volentieri le decime.
I marchesi non tollerarono più tale negligenza e vollero ricondurre i sudditi a una maggiore osservanza dei doveri.
I diritti dei signori non si potevano ovviamente negare ma la gente trovava comunque il modo di questionare su tutto e la riscossione avveniva con difficoltà. I marchesi ricorsero al prefetto di Ceva citando i sudditi dinnanzi al tribunale ma i rappresentanti della comunità semplicemente non si fecero vedere.
Con questo espediente e in seguito con mille altri il litigio si prolungò per anni e anni.
Nel 1632 il senato diede sentenza favorevole ai marchesi ma quei di San Michele ne chiesero, e ottennero, la revisione e la questione continuò insoluta.
I Marchesi ne erano fortemente irritati, specialmente il signor Galeazzo, data la sua indole arrogante.
Un avvocato della comunità scrisse da Torino che uno dei signori di San Michele, Galeazzo appunto, irritato dal comportamento dei Sanmichelesi era in trattative con il Cardinale Maurizio di Savoia per vendergli i suoi diritti.
Se la notizia fosse stata vera, San Michele si sarebbe trovato a mal partito, data la potenza del cardinale, ma la comunità non si spaventò e continuò tenace nella resistenza ai marchesi.
L’astuzia popolare trovò nuovi sotterfugi.
Quando si impose la consegna “con giuramento” molti giurarono e ritirando in fretta le mani dopo aver toccato il vangelo, le fregavano nelle vesti prima di terminare la formula del giuramento.
Altre volte i delegati della comunità e dei proprietari si recavano a Ceva per pagare dal magistrato ma si scusavano dichiarando di non avere con se i denari. E la lite continuava.
In tutta questa prima parte del 1600 anche in mezzo a guerre, tributi, malattie e liti continue le condizioni del villaggio si mantennero comunque tollerabili.
Alle spese si supplì con la costituzione dei censi e alle altre necessità si provvide con coraggio, con l’aiuto di sagge persone e con l’appoggio del Duca stesso e del suo governo. Si ebbe anche la forza, come si è detto, di iniziare la costruzione della nuova grande chiesa.
La comunità, nonostante i tempi cattivi, ebbe cura dell’ istruzione religiosa e di quella popolare. Come maestro si sceglieva per lo più un sacerdote del paese e lo stipendio veniva pagato in parte dalla comunità e in parte dalle famiglie. Nell’anno 1643 si registra la presenza di settantasette alunni. Si ebbe cura della salute pubblica e del buon mantenimento delle vie e della loro pulizia. Dal bilancio della comunità venivano pagati medici e cerusici.
Pochi anni dopo le guerre ricominciarono e il villaggio di San Michele subì anni di stenti e di sofferenze.
La prima di queste guerre scoppiò nel 1635 quando il Duca, alleatosi con la Francia, invase il Milanese, già da tempo sotto gli spagnoli.
La guerra, dapprima distante, si fece presto sentire anche da noi quando gli spagnoli iniziarono a tormentare con guerriglie continue il Monferrato e le Langhe. Il loro scopo era quello di mantenere libero il passaggio tra i loro possedimenti e il Finalese, loro unico approdo sul mar ligure.
Il nostro paese, tra gli altri disagi, dovette subire arruolamenti di milizie, lavori per il forte di Ceva e alloggi di soldatesche.
Nel 1637 il Duca Vittorio Amedeo sconfisse gli spagnoli presso Mombaldone ma lo stesso anno morì e con lui morirono le speranze di un avvenire migliore.
La duchessa vedova, Cristina di Francia ebbe la reggenza del figlio minorenne e si appoggiò alla Francia.
A contenderle il diritto di reggere lo stato intervennero i due suoi cognati che si appoggiarono alla Spagna e fu la guerra civile.
Il paese conteso dalle due parti precipitò in una grande confusione: fino al marzo del 1639 giunsero gli ordini della Duchessa e dopo breve intervallo, in maggio presero a piovere gli ordini dei Principi.
In mezzo a questi contrasti non stupisce che sorgessero malumori e discordie anche tra paese e paese.
Tra San Michele e Vico si verificarono molte ostilità a causa di un fatto di sangue avvenuto presso la chiesetta di San Bernardino.
Durante un’imboscata venne ucciso un uomo di Vico e ne venne ferito un altro. Si sparse la voce che gli assalitori fossero di San Michele e anche se la loro responsabilità non fu provata il malanimo si protrasse in quei di Vico.
Intanto nel 1640 la guerra imperversava e pare che i marchesi aderissero ai Principi e agli Spagnoli mentre il popolo sembrava preferire la reggente.
Sotto il governo dei Principi erano frequenti gli ordini, talvolta minacciosi, di provvedere ai viveri e di alloggiare le milizie.
Il paese si trovò in tristi condizioni e solo verso la metà del 1641 iniziò a tramontare la fortuna dei Principi. Già alla fine di luglio gli ordini arrivarono dai ministri della Reggente e nell’autunno, con la presa di Cuneo la guerra terminò.
Durante la guerra molte tribolazioni erano state patite dal popolo inerme anche a causa di carestie, incendi, grandine e prepotenze di soldati.
I redditi consueti non bastavano alle necessità e la comunità ricorreva spesso a prestiti non più sotto forma di censi ma come obbligazioni a breve scadenza, dette polizze o apoteche. Gli interessi dei debiti accrescevano il disagio e la comunità era sempre meno in grado di pagare. A saldo dei debiti il bestiame veniva sequestrato e la comunità ben presto si rese conto che questa forma di finanziamento era estremamente nocivo: in pratica era come tagliare l’albero alle radici.
I paesi vicini non versavano in condizioni migliori e cercavano con ogni mezzo di non pagare le taglie per le terre che possedevano nei nostri confini.
Le contese non avevano mai fine nonostante si tentasse di risolvere le questioni in modo amichevole per riportare, se non il benessere, almeno la pace tra i paesi confinanti. Si preparavano anni molto tristi per la nostra comunità.
Finita nella primavera del 1642 la lotta civile per la reggenza, si ricominciò a combattere in Piemonte tra Francesi e Spagnoli nell’ ottobre dello stesso anno.
In questi anni bui la comunità, già afflitta dalla scarsità dei raccolti, sopportò anche il peso di numerosi alloggi di milizie. L’anno successivo la guerra continuò con le sue tragiche conseguenze: aumentarono le spese, si ricorse sempre di più a prestiti e di conseguenza aumentarono gli incanti e i sequestri.
La comunità si impoverì sempre di più e la maggior parte della gente, abbandonate le proprie case, andò servire chi qua chi là.
Nel 1646 alle tante sventure si aggiunse il fallito raccolto del grano: ne era stata prodotta soltanto la quarta parte della produzione solita. Aumentarono i pignoramenti e i sequestri e i poveri abitanti non ebbero più modo di sfamare le proprie famiglie.
Si rivolsero anche alla Duchessa ma con scarsi risultati.
Gli anni successivi furono anche peggiori e la comunità divenne poverissima mentre continuavano implacabili a gravare le decime dovute ai Marchesi.
La maggior parte degli abitanti vagava mendicando o era fuggita in Riviera e nel 1650 la popolazione si era ridotta a sole 75 famiglie. Non stupisce se più di prima si stentasse pagare i tributi e si obbligavano i sindaci e i consiglieri a fare da esattori pagando spesso di tasca propria quanto non riuscivano a riscuotere.
Ovviamente non si trovò più nessuno che accettasse l’incarico. Seguirono altri tre anni di sventure, la comunità non trovò più la forza di mettere insieme il consiglio e fu abbandonata a se stessa. Il conseguente declino di tutte le autorità portò con se ogni genere di disordini e violenze. Bande di malviventi cominciarono a saccheggiare, rapinare, uccidere riducendo il paese all’estrema miseria. La popolazione soffrì crudeltà di ogni genere: percosse, violenze, uccisioni, furti di ogni genere.
Più di cento settanta case erano state abbattute, i capi di famiglia erano assenti, il bestiame poco e buona parte del territorio era incolta.
Le prepotenze e l’estrema povertà causarono liti e ostilità anche tra paesi e paesi che in tempi normali si sarebbero risolte davanti ai giudici e invece degeneravano in risse e aggressioni. Il paese non offriva più alcuna forma di comunità.
Finalmente nel 1655 intervenne l’autorità sovrana e si intravide un po’ di luce.
Il prefetto di Ceva, come delegato del sovrano, ristabilì il consiglio comunale come meglio poté ma non bastava ancora, occorreva anche convincere la gente a ritornare nel paese devastato.
Il consiglio appena ricostituito si rivolse al re esponendogli quali potevano essere i rimedi per salvare la comunità.
Per invogliare la popolazione a ritornare, chiesero la grazia di tutti i debiti vecchi, che venne concessa, e di quelli dei tre anni successivi concessa solo in parte.
Ottennero anche il condono di un tributo, la sesta dei censi, e il riesame dei conti in sospeso tra la comunità e i censuari o altri creditori.
Chiesero e ottennero anche altri favori e gradatamente, anche se a rilento, la comunità si rianimò.
In questo ritorno alla vita, il paese fu aiutato da Giovanni Filippone, notaio, che seppe agire con giudizio e accortezza consigliando per i meglio la comunità nelle varie questioni.
La vita e le speranze della comunità, anche negli anni più cupi, non si erano comunque spente del tutto, lo testimonia l’amore per la nuova chiesa parrocchiale che si stava costruendo.
Anche negli stessi anni, dal 1652 al 1655, in cui la comunità era priva dell’amministrazione, si ricorda qualche lavoro attorno a questo edificio.
I lavori aumentarono quando, dopo il 1655, il paese iniziò una nuova vita e la gente che era fuggita ritornò nel paese, riprese a coltivare le terre e a confidare nelle proprie forze.
A migliorare le cose giunse nel 1659 il trattato detto dei Pirenei che portò pace e nuovo ordine in tutto il Piemonte.
Nel 1662 la nuova chiesa di San Michele era pressoché terminata. Venne in visita pastorale il vescovo di Asti, Monsignor Rotario; San Michele apparteneva ancora a quella diocesi anche se sotto la reggenza dell’arciprete di Ceva, come si è detto in precedenza.
Si continuava nel frattempo a cercare ogni strada possibile per rendere la chiesa nuovamente indipendente da quella di Ceva, tentativo già fatto in precedenza ma senza successo.
Gli abitanti non erano contenti del vice curato di San Michele, rappresentante dell’ arciprete, e lamentavano lo scarso interesse di costui per la comunità.
Si legge che “veniva trascurato l’insegnamento religioso, male osservati i giorni festivi, non praticata la carità quindi vive inimicizie tra famiglia e famiglia, frequenti le risse, gli omicidi, negletta la chiesa, incolte le terre parrocchiali”.
Queste relazioni informano che nessun Arciprete di Ceva si era più recato nella chiesa di San Michele e i vice-curati non sentivano altro obbligo che quello di celebrare messa, e questo veniva fatto in modo trascurato e frettoloso. Non insegnavano la dottrina, non spiegavano il vangelo, non predicavano e non dicevano una parola spirituale per il bene delle anime. Pare che molti non sapessero neppure farsi il segno della croce e che molti infermi morissero senza il conforto dei sacramenti.
L’arciprete di Ceva ricorse a Roma per chiedere che la chiesa di Ceva non venisse privata del beneficio di quella di San Michele.
Da parte loro, la gente del paese non rimase inoperosa e combatté con accanimento per il motivo opposto e nel 1678 la comunità ebbe la gioia di vedere la sua chiesa indipendente e retta da un proprio pastore, non semplice rettore ma arciprete e vicario, don Paolo Corbelleri, cugino del notaio Giovanni Filippone a cui si è già accennato prima.
Era costui una persona capace, onesta e molto stimata non solo nella comunità di San Michele ma anche in tutto il marchesato e i suoi consigli erano tenuti nella massima considerazione.
Fu segretario della comunità per quarant’ anni a partire dal 1625 e, rieletto anno dopo anno, si accattivò sempre più l’animo dei consiglieri per la sua intelligenza e rettitudine.
In questa seconda parte del 1600 venivano sempre più perdendo di autorità e ricchezze le due famiglie dei marchesi di Ceva.
Già dalla fine del 1500 parte dei diritti feudali era stato trasmesso ad altre famiglie per via di parentele e successioni mentre altre parti si staccarono successivamente per acquisto.
Nel 1672 i figli del notaio Giovanni Filippone ne acquistarono una buona parte e per questa ragione vennero insigniti del titolo di consignori di San Michele.
Così, in poco più di un anno una famiglia popolana si eguagliò in dignità con quei Marchesi che in passato erano stati i signori assoluti del territorio.
La famiglia Filippone ebbe grande peso in quegli anni nella vita interna della comunità e nei suoi rapporti con i paesi vicini.
Maurizio Filippone, uno dei figli di Giovanni, aveva il titolo di Conte di San Mauro e nel 1674 fu eletto consigliere di stato e contadore generale dell’esercito. Fu sempre tenuto in gran conto dal Duca Carlo Emanuele e, alla sua morte, dalla Duchessa Reggente.
Versatile d’ingegno come era ebbe da loro importanti incarichi e molto spesso gli furono richiesti consigli.
Tra i Marchesi e la Comunità si erano ormai definitivamente appianate le lunghe contese per le imposizioni sui terreni e così pure per la questione delle decime.
Il modo di esigere le decime era stato migliorato: si valutò quanto potevano rendere in complesso le decime sul grano, sul vino e sugli altri prodotti; si calcolò quel reddito in denaro e non in frutti, somma sempre uguale sul bilancio; gli esattori lo esigevano con gli altri redditi e lo pagavano alla Chiesa, ai marchesi e agli altri Signori in rapporto ai punti, come si diceva, della loro giurisdizione.
Non è individuata la data esatta in cui questo ordine nuovo entrò in vigore ma il primo sicuro riferimento è del 1673.
Nonostante queste buone intese, qualche ombra continuò ad esistere tra i feudatari e la comunità che non sempre dimostrò molta premura nel pagare.
I rapporti erano comunque piuttosto buoni e il Marchese Giovanni Francesco aiutò il paese nella costruzione della nuova chiesa, nella questione dell’uguaglianza e durante la pestilenza. Buoni furono anche i suoi figli e tra questi il Marchese Giovanni Antonio Giorgio, l’ultimo della sua stirpe.
Vivevano questi ultimi marchesi una vita assai modesta, diminuiti come erano i loro patrimoni e assottigliati i loro redditi.
In quel loro decadere favorirono il sorgere di alcune istituzioni di beneficenza e la prima fu la compagnia dei Disciplinanti.
L’altra fu la compagnia del Suffragio, che fece proprie le regole della compagnia dei disciplinanti o battuti, assai più antica.
Questa compagnia si attirò ben presto la benevolenza del paese e furono in molti a lasciare loro in eredità case e terreni i cui profitti erano devoluti in beneficienza.
Una delle spese più importanti si riferisce, nel 1676, alla costruzione dell’oratorio o casetta dei Disciplinanti, poi divenuta chiesetta dei Confratelli.
Il Marchese Giovanni Antonio fu parecchie volte priore fin dall’inizio della pia istituzione e il sentimento religioso lo accomunava con i più umili del villaggio.
Nel 1689, sul finire della sua vita, morti i fratelli e rimasto solo nel castello, cancellò con un atto irrevocabile tutte le obbligazioni, i canoni e le enfiteusi a lui dovute da qualsiasi proprietario di San Michele o di altri luoghi.
Sul finire del 1600 il nostro paese si presentava a grandi linee già collocato dove si trova attualmente e la nuova chiesa parrocchiale con la chiesetta dei diciplinanti facevano spiccatamente risaltare il Borgo, parte centrale del villaggio.
Le condizioni del popolo migliorarono e il paese si riordinò e si ripopolò. Nella visita pastorale del vescovo d’ Asti, nel 1662, si contano millequattrocensosessantasei abitanti e nel 1697 una trentina di più.
Anche se lo stato economico era migliorato, il paese non risultava comunque tra i più floridi e molte terre rimanevano ancora incolte. In generale il territorio si stimava poco fertile e di scarso reddito in castagne, vino e grano. Inoltre pesavano ancora sui terreni, oltre alle decime, gli interessi dei molti censi e prestiti.
Si iniziò dunque, non appena ci fu un po’ di pace, a rivedere tutti i conti risalendo indietro fino ai primi anni di quel secolo riesaminando con pazienza i molti censi. Se ne riconobbero le irregolarità e si chiamarono revisori governativi per esaminarli.
Sopraggiunsero intanto anni di guerra con la Francia e il Piemonte subì gravi danni e anche San Michele ne sentì il contraccolpo.
Nacque anche un’ aspra lite tra la Comunità e i fratelli Corbelleri, medico e arciprete, per l’assestamento dei censi, nonostante quanto era già stato fatto dal revisore governativo.
La lite tra il pastore e le sue pecorelle durò a lungo e si inasprì con il progredire ma, per quanto vivace, non impedì al Corbelleri di adempiere il suo dovere di buon arciprete.
Bisogna dire che qualche buona ragione poteva pur averla.
Ebbe anche a cuore l’abbellimento della Chiesa e nel 1701 nacque una polemica un po’ aspra con la Comunità perché i loro gusti artistici non si accordavano.
Torna comunque a suo merito l’aver favorito alcune istituzioni di beneficienza quando nel 1675 era semplice cappellano e più tardi, come arciprete, l’introduzione del culto di Santa Giustina.
Una reliquia di questa santa venne portata da Roma da un giovane sacerdote, parente del Corbelleri e questo lascia credere che questo arciprete, di indole alquanto battagliera, abbia avuto una non piccola parte nell’avvio di questa devozione.
La reliquia di Santa Giustina, debitamente autenticata, fu accolta con gioia e considerata, fin dal 1690, compatrona della comunità con l’Arcangelo Michele.
Era considerata protettrice contro il flagello della grandine e da allora la fiducia in lei e nella sua protezione non vennero mai a mancare.